Claudio Caserta

Viaggio interiore di un dionisiaco demiurgo

 

Nicola Pellegrino appartiene a quella specie estinta degli esploratori, generazioni di viaggiatori mai turisti, di scopritori di terre, di luoghi, di persone, ma soprattutto discopritori, genialmente intuitivi, di se stessi, delle pulsioni ed emozioni del tempo interiore, della propria spiritualità più antica ed ancestrale, del posto dove è nascosta l’anima. Un sensibile antropologo che ha saputo fare della conoscenza e della cultura il veicolo per transiti metaspaziali quanto metatemporali, un alchimista consapevole del limite della materia e della forma che la definisce, ma proprio per questo unico utopista possibile; l’imponderabile, infatti, gli viene incontro e gli consente di raggiungere insperabili risultati e mete diversamente impensabili. Diviene, quindi, evento naturale il farsi architetto dell’immaginazione, artefice capace quanto spontaneo di luoghi inaspettati, di stanze misteriose, di animati perimetri attraversati dal vento. Artista autentico, in quanto non artigiano applicato ad un’ideazione, ma strumento di un animo inquieto, sempre e costantemente teso verso un’autorivelazione attraverso il gesto poietico che proprio per questa assai sensibile genesi potrà davvero divenire poetico, Nicola Pellegrino possiamo pensarlo come un viaggiatore del Grand Tour, che raccoglie immagini come reperti ed oggetti e relitti come immagini, metabolizza il tutto in un componimento spirituale dove la sintesi è rigenerazione del cosmo ed autorivelazione sia della coscienza che dell’animo. Un’operazione sul corpo della propria mente che ci restituisce, quasi ci destina, tracce che non pensavamo ci appartenessero e, anzi, quanto fossero determinanti al nostro esistere e finanche al nostro essere. Il legno, l’argilla, gli smalti, diventano per l’artista un caleidoscopico alfabetiere con cui ricomporre il filo di una narrazione arcaica che appariva smarrita prima che un dionisiaco demiurgo reinventasse i legami, immaginasse parentele, ponesse in relazione materiali e forme anche apparentemente inconciliabili. Metafora possente quanto efficace di questa caldaia dell’infinito, alambicco primordiale dell’unione di tutti i contrari, è l’invaso, amniotico e spaventevole a un tempo, della impenetrabile notte negli abissi oceanici, da cui, fantasmaticamente e d’improvviso, appaiono presenze marine meravigliosamente preziose, come gioielli che riemergano da un perduto forziere. Fossili viventi e sapienti narratori, con il proprio corpo, di stagioni perdute nella protostoria, questi guardiani dell’infinito interiore appaiono come sostenibili allucinazioni di una consapevolezza spaventata dall’inverosimile.

Nicola Pellegrino, che per raccontare una dolcemente inquietante vicenda si è fatto anche abile e stratificato ceramista, rievoca queste presenze come assai preziosi ritrovamenti fantarcheologici, forme, apparentemente marine, divengono scintillanti astronavi dalla ultragalattica fantasia; forme dinamiche transitano dinanzi allo sguardo come siluri silenziosi dal terrificante sibilo e pare che rapidamente si obliino come subitaneamente erano apparse. Ciò che resta è l’incantato stupore dell’inafferrabile quanto perduta fantastica visione; con l’anelito che anche questa non si disperda e vada perduta come memoria annullata su di una narrazione svoltasi invano. Il tema dolente della memoria, tra il reale consapevole e un magico onirico, torna spesso in visita all’artista che, fatto bagaglio della propria melencholia esistenziale, assume l’ufficio di riassemblare le perdute tessere di quel paradisiaco affresco (così volutamente pensato), di riporre sul desco ciotole rituali addolcite dall’amorevole carezza emozionale, di adornare i corpi con preziosi frammenti di una civiltà perduta. Sensuali, a volte appassionati, sempre comunque lievi ed equilibrati per materiali, forme e decori, i gioielli d’artista, in questo caso da indossare, si propongono come assai eleganti accessori per costumi teatrali, paiono chiamati ad anticipare situazioni del corpo e dello spirito; si presentano autoreferenti, mai inerti, dotati di un dinamismo cromatico, che interagisce con le varie componenti assemblate, e sempre appartenenti, per quanto attualizzati alle tematiche segniche della postmodernità, ad un gusto estetizzante dai tremolanti luccichii di quella perduta stagione che finiva, con il secolo, con tutto un mondo. Un universo sensibile di cui si sta perdendo anche memoria e sentimento. Tuttavia, le donne adornate da Nicola Pellegrino potranno, anche attraversando l’esistenza distrattamente e di corsa, rimandare a qualche folgorante indugio di Boldini, di Corcos, di Singer Sargent. Questione di fascino.